Ad oggi l’euro, a soli dieci anni dalla sua presentazione ufficiale, si trova a dover fronteggiare la sua prima, grande crisi internazionale, considerata da molti – nonostante gli sforzi dei rispettivi governi appartenenti alla cosiddetta eurozona – come fatale per la giovane moneta occidentale. Eppure quella disegnata dai media non rappresenta la più grave tra le crisi monetarie succedutesi nella storia. Più volte, infatti, il calibro di determinate valute è riuscito, nonostante tremendi collassi, a mantenere o addirittura ad incrementare il potere d’acquisto originario. Proprio la storia, difatti, può insegnarci ad interpretare obiettivamente la crisi e ad identificarne le migliori risoluzioni.
L’occupazione della Ruhr ad opera della Francia, legittimata dal Trattato di Versailles del 1919, privò la Germania di una delle sue migliori risorse produttive, costringendo il governo ad impegnarsi in nuove, ingenti spese per finanziare la resistenza passiva nella Ruhr tassando, come prevedibile, imprese e lavoratori. A risentirne fu, in primo luogo, proprio il marco che, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili (5 milioni di marchi per un dollaro in luglio, 200 miliardi in settembre, 4000 miliardi in novembre). Il suo potere d’acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000. Si può parlare tutt’oggi di una vera e propria polverizzazione della moneta. Mentre lo Stato continuava a stampare banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto, chi riceveva pagamento in denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di qualsiasi cosa.
Pochi anni dopo fu il giovedì nero di Wall Street ad inaugurare una lunga e disastrosa depressione, ribattezzata poi dagli storici come la crisi del ’29. A sconvolgere, stavolta, il prospetto economico non solo degli Stati Uniti ma dell’intera Europa, fu, insieme alla completa assenza dello Stato come interventista, una gestione sin troppo superficiale dei redditi da parte dei governi americani, troppo distratti e accecati, nel pieno dello sviluppo, dal benessere più assoluto. Alla crisi bancaria seguì quasi immediatamente un’inevitabile crisi monetaria, e farne le spese fu subito l’Inghilterra, costretta (dopo l’impensabile esaurimento delle riserve auree della Banca d’Inghilterra) a dover sospendere la convertibilità in oro della sterlina. L’evento sancì – non senza clamore – la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di miglior banchiere del mondo.
In Francia la crisi giunse in ritardo (nella seconda metà del ’31), ma durò più a lungo, soprattutto perché i governi vollero legare il loro prestigio alla difesa del franco, ritardando fino al ’37 la svalutazione della moneta. Qui la crisi economica colpì soprattutto la politica: in pochissimi anni infatti si succedettero ben diciassette governi, sia di centro-destra che di centro-sinistra.
Le soluzioni – come del resto le crisi stesse – furono sensazionali. Se agli Stati Uniti bastò il New Deal del neo-eletto presidente Roosvelt capace, in poco tempo (ma non senza difficoltà), di attuare non solo un piano risanatore in netto contrasto con la pessima gestione del suo predecessore Hoover, ma anche di riportare ben presto gli Usa in un contesto di gran lunga più fiducioso. La Germania, al contrario, seppe uscirne col celebre riarmo nazista, il quale favorì sì un tasso di occupazione ancora oggi impensabile, ma creò le basi per il secondo, terribile conflitto mondiale.
Eppure, senza esagerare, quella che viviamo oggi non è di certo la crisi monetaria per eccellenza. In tempi senza dubbio più complicati – vuoi per l’intervento dello Stato, vuoi (ahimè) per motivi meno nobili – le diverse nazioni in ballo sono sempre state capaci di trovare la giusta soluzione per uscire dal baratro più profondo.
Quella di oggi è senza dubbio una crisi nuova per l’Europa, di fronte, per la prima volta, alla condivisione di un male realmente comune, almeno sulla carta.
Non è però una giustificazione. E come la storia insegna: ad ogni grande crisi segue una grande ripresa. Sta solo all’euro non morire nel suo primo, fragile momento di crisi.