Perché l’uomo si è dimenticato dello Spazio?

Perché l’uomo si è dimenticato dello Spazio?

“Se la corsa allo spazio fosse continuata come negli anni ’60, sarebbe stato possibile inviare un uomo su Marte. Eppure negli anni ’70 lo spazio passò di moda, e noi non l’avevamo previsto”. A dirlo non è un astronauta o un dipendente NASA, ma David Hughes, autore de “The Complete Kubrick”, opera sul regista che nel 1968 diresse quello che tuttora è considerato il miglior film di fantascienza sulla vita nel buio: ‘2001: Odissea nello Spazio’. Quel film, ad oggi, è essenziale per comprendere e studiare le aspettative dell’uomo nei confronti del 2001, anno in cui il progresso tecnologico avrebbe dovuto toccare il picco più alto di sempre, arrivando persino ad inviare un astronauta su Giove. Avrebbe, per l’appunto.

Astronauti sulla Luna, fotogramma tratto da "2001: Odissea nello Spazio"
Astronauti sulla Luna, fotogramma tratto da “2001: Odissea nello Spazio”

ANNI ’60, CORSA ALLO SPAZIO – “Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese, non perché sono semplici, ma perché sono ardite”. Le parole di John F. Kennedy (all’epoca – 12 settembre 1962 – già Presidente degli Stati Uniti d’America) emanavano ambizione, scoperta, impegno. Se un anno prima Yuri Gagarin, russo, sovietico, nemico dell’America aveva vestito i panni del primo uomo a volare nello spazio con successo, l’occidente doveva rispondere. E pure presto. Proprio nelle logiche della Guerra Fredda va ad incastonarsi il periodo d’oro delle scoperte spaziali: un anno dopo l’uscita nelle sale di ‘2001: Odissea nello Spazio’, il 20 luglio del 1969 due americani toccarono per la prima volta nella storia dell’uomo il suolo lunare. L’Apollo 11 (questo il nome della celebre missione) poté considerare chiusa la gara a due tra America e Unione Sovietica per il primato spaziale. Talmente chiusa che nel ’75, 6 anni dopo, le due superpotenze collaborarono insieme nel Programma test Apollo-Sojuz, ultima missione per una capsula Apollo e conclusione di un’epoca costellata di ravvicinate missioni nello spazio.

IL CAMBIO DI ROTTA – Disordini, lotte politiche, conquiste nel campo dei diritti dell’uomo, stravolgimenti culturali ma soprattutto sociali, fecero degli anni ’70 un decennio di improvviso cambiamento per molte nazioni occidentali e non, spostando – in parole povere – l’attenzione dallo spazio alla terra. Il benessere degli anni ’60 (tipico, non a caso, di paesi come l’America, l’Unione Sovietica, il Canada e l’Italia) appariva già lontano non solo agli occhi dei cittadini, ma anche alle casse dello stato. Conquiste sociali, sì, ma perdite economiche: basti pensare alla crisi energetica del 1973 e alle gravi conseguenze che questa causò specie in Europa. Dal ’75 in poi, nonostante l’unione di intenti U.S.A.-U.R.S.S. (potenzialmente inattaccabile), non ci furono scoperte scioccanti. L’era d’oro della corsa allo spazio, iniziata al volgere degli anni ’50, era già terminata.

I DISASTRI  – La NASA, sul chiudersi degli anni ’70, preferì concentrarsi – un po’ per necessità, un po’ perché costretta – sul capitolo sicurezza piuttosto che sul versante esplorativo. Diversi shuttle – come il Challenger nell’86 (foto) e il Columbia nel 2003 (video) – furono però inviati in orbita con esiti disastrosi (perdita totale dell’intero equipaggio in entrambi i casi).

Quelle tragedie, nell’arco di 17 anni, non solo confermarono i limiti di un veicolo che poteva esser gestito in modo sicuro solo in condizioni straordinarie, ma avevano disilluso e forse allontanato il popolo dalle imprese spaziali, divenute quasi anacronistiche. La crisi economica della NASA (iniziata già agli albori degli anni ’80) portò gli americani a contattare altre agenzie spaziali per la realizzazione di una Stazione Spaziale Internazionale, progetto studiato da tempo e poi realizzato – ma solo parzialmente – nel 2000 (è ancora in fase di perfezionamento).

La Terra, fotografata da un inviato speciale: Luca Parmitano, astronauta italiano
La Terra, fotografata nel novembre del 2013 da un inviato speciale: Luca Parmitano, astronauta italiano

IL CROLLO DEI FONDI – Eccoci al 2001, anno in cui Kubrick immaginava stazioni spaziali rotanti, missioni su Giove, astronavi all’avanguardia ed equipaggi dall’incredibile sicurezza ed esperienza. La realtà, invece, si presenta ben più drammatica. Il Governo federale statunitense – ironia della sorte, nel giorno del 55esimo anniversario della NASA (1 ottobre 2013) – ha chiuso il 97% dell’agenzia spaziale, in un arresto di governo senza precedenti provocato dal mancato accordo tra il Senato e la Camera di Rappresentanti sulla distribuzione e la gestione dei fondi. Sugli oltre 18mila impiegati della NASA, infatti, da quel giorno solo in 600 continuano a lavorare per assicurare la sopravvivenza e la sicurezza dei due astronauti statunitensi attualmente in servizio sulla Stazione Spaziale Internazionale. Lo stesso Obama, con incredibile delicatezza, proprio in quei giorni dichiarò via comunicato ufficiale che: «La NASA sarebbe stata chiusa quasi del tutto».

Il crollo di fondi relega ormai da tempo la ricerca spaziale ad un ruolo di basso profilo, destinato – nonostante l’attuale (anche se ridotta) operatività – a ricerche di secondo piano, se consideriamo le grandi aspettative ed intenzioni politiche di alcuni decenni fa. Sonde (sì, utili, ma spesso fallimentari), osservazioni (scopriamo ogni giorno decine di pianeti nuovi, per constatarne poi l’irraggiungibilità), studi (quasi mai confermati, ma sempre supposti) fanno dell’universo un concetto ben distante dalla nostra quotidianità, già afflitta da crisi economiche “terrestri”  ben più profonde. Persino la bandiera americana, piantata sulla Luna ormai 45 anni fa, è caduta. Chissà che in futuro, quel drappo come anche l’interesse per le stelle, non possano rialzarsi insieme sotto nuovi interessi comuni. A Kubrick, del resto, farebbe molto piacere.

Pubblicato da riccardocotumaccio

Speaker, autore, giornalista e presentatore: il tutto in un solo uomo, pensate.