“Youth”, quando il troppo stroppia. Ma può comunque incantare

“Youth”, quando il troppo stroppia. Ma può comunque incantare

Per capire “Youth – La giovinezza”, primo film post-oscar di Paolo Sorrentino, forse basta studiare le reazioni del pubblico di Cannes. Lunghi applausi, timidi ma pur sempre lunghi, con qualche ‘buu’ sparso qui e là. Del resto ci vuole coraggio a fischiare. Non perché l’opera sia un capolavoro (lo diciamo subito: non lo è), ma perché il gesto risulta sempre un po’ cafone e in fondo questo film non lo merita. È azzeccato su diversi piani, in primis nel cast. Scegliere come protagonisti Michael Caine e Harvey Keitel, due colonne del cinema mondiale, lascia spazio a poche perplessità. Anche se il ruolo del primo – Fred Ballinger, direttore d’orchestra – è più prezioso, intenso ed interessante, quello di Keitel (Mick Boyle, vecchio regista di cinema) percorre le emozioni di un settantenne che per non sfiorire si aggrappa ancora alla sua professione storica: la regia.

I due, amici da sempre, sono in vacanza in Svizzera, nello splendido hotel Schatzalp, luogo forzatamente ideale per riflettere, studiare e tornare sulle proprie vite, ripercorse con non poca malinconia. Se per “La Grande Bellezza” era il vuoto, per “Youth” il nucleo centrale è la vecchiaia, raccontata con ironia e profonda rassegnazione. I livelli tecnici sono tutti prevedibilmente all’altezza: oltre che nelle scenografie “Youth” colpisce nella fotografia sincera, nella colonna sonora sempre variegata ed originale e nei dialoghi. La trama del film è seguita, quasi costantemente, da esibizioni ‘live’ di artisti veri, su una pedana roteante all’esterno dell’hotel. Ci sono quadri, riferimenti neanche troppo velati ad alcune passioni del regista (basti citare la presenza di un finto, ma verosimile Maradona nel cast) e spunti artistici da ammirare. Come è avvenuto per Servillo & co., anche qui la potenza delle immagini è a tratti sbalorditiva. Allora viene spontaneo chiedersi: cosa c’è che non va?

La regia di Sorrentino è vanitosa, egocentrica, egoista, spesso (ma non sempre) fine a se stessa. Quello di “Youth” pare più un esercizio stilistico, piuttosto che un’opera dal senso logico appetibile. Si può restare a bocca aperta per le immagini, sempre forti e sempre più perfette, ma si può aprire la bocca anche per sbadigliare, e non dal sonno. È questo il problema: il film può piacere a chi ama un certo tipo di cinema, forse troppo elitario, che richiede uno sforzo ulteriore spesso non contemplato dallo spettatore tipo. E non è una discriminazione, è una critica. Ricalcando le orme de “La Grande Bellezza” si rischia di avviarsi verso uno stile sempre più criptico e sempre più distante dall’immediatezza. Ciò che manca, in fondo, è l’efficacia di un colpo di scena, la scena che resta impressa non per i colori ma per i contenuti. Manca il “wow”, che forse è complessivo, ma per questo risulta dilatato e dimenticabile. Non vale lo stesso per il film, sarebbe azzardato dirlo. “Youth” può incantare per i motivi sopra elencati, ma può anche esser fischiato. Perché la natura dell’opera, come forse del regista, è sin troppo ambigua per esser compresa a 360 gradi. E qualcuno, di buon diritto, inizia a storcere il naso.

Pubblicato da riccardocotumaccio

Speaker, autore, giornalista e presentatore: il tutto in un solo uomo, pensate.